La divisione del lavoro nelle "terre alte"

La stratificazione sociale nel mondo agricolo trentino-tirolese.
C'erano i ceti più alti, scarsi magari come numero, ma tanto più determinanti, attra-
verso la loro influenza, su commerci e mutamenti, e spesso esemplari nel rinnova-
re come nel conservare l'antico. Anche la nobiltà e il clero, più che i borghesi delle
città, cercavano e trovavano  una essenziale base di esistenza nell'agricoltura, sia
che essi, come  possidenti, richiedessero tributi in natura o prestazioni di servizi,
oppure  facessero coltivare i loro terreni direttamente da operai o da servi.
Questo blog fa riferimento ad una specifica area geografica dell'arco alpino: il Trentino-Südtirol. Sebbene le considerazioni svolte mantengano una loro validità generale, va detto che certe importanti specificità, la forma giuridico-economica del maso chiuso innanzitutto, caratterizzarono queste terre alte, differenziandole in maniera marcata da altre, seppur vicine. Con il passaggio del Trentino all'Italia le preesistenti differenze tra il modello insediativo trentino (popolazione agricola concentrata nei paesi) e quello sudtirolese (popolazione agricola sparsa sul territorio) divennero più nette. E tuttavia, più si va a ritroso nel tempo e più le analogie prevalgono sulle differenze.
Anche all'interno del ceto contadino stesso c’erano delle differenze di rango a seconda della consistenza del terreno posseduto dal maso.

Il contadino medio.
Il maso, forma di proprietà agricola nata nel medioevo feudale, si basava su un rap-
porto di infeudazione concesso da un signore ad un colono disposto a dissodare e
coltivare le "terre alte". Tipologie e forme variavano in base al luogo e alla consisten-
za dell'insediamento. Il maso tipico, come il maso Höfila in Val Aurina oppure il maso
Trattmann in Val Sarentino, era comunque economicamente autosufficiente. Gli ap-
pezzamenti più ampi ospitavano abitazioni più ricche ed edifici rurali di maggiori
dimensioni (come il maso Ruoner in Val d'Isarco).
Il largo strato di popolo che formava in modo determinante la cultura popolare, era il ceto contadino, uno strato sociale medio, il cui modo di vivere e di operare sul suolo proprio, su terreno proprio tendeva all'indipendenza, all'autosufficienza.
A questo riguardo c'erano nel Tirolo già da lungo certe premesse, come la libertà della persona, la libertà di successione e il diritto di unico erede; ciò che ha assicurato, non senza gettare qualche ombra, l'esistenza e la continuità dei masi agricoli.
Poiché ci deve essere un certo patrimonio di terreni e di altro per poter nutrire, come si deve, una grossa famiglia. Nelle vallate del Tirolo, situate più a sud, era molto importante la coltivazione dei cereali.
Così nelle annate più favorevoli, falciando i prati di casa due o tre volte, si potevano tenere una dozzina di mucche, vitellame, due cavalli, un paio di dozzine di pecore, alcune capre, maiali, galline e oche e si poteva disporre di latte, carne, lana e pelli per il fabbisogno di casa.
Si comperavano, oltre agli oggetti di ferro, come falci, falcetti ecc., soltanto sale e un po' di zucchero; quest'ultimo doveva essere pagato con i soldi che la massaia ricavava dalla vendita di burro e di uova, e così il caffè, noto già da alcuni decenni, come pure il tabacco.
In ogni modo c'era una certa indipendenza dal raro danaro liquido. Le parti essenziali del vestiario venivano confezionate da artigiani che venivano in casa (come «disturbatori» dell’abituale ordine casalingo): calzolaio, sarto, sarta, tessitore ed altri. Essi avevano certe esigenze e ricevevano un pasto in più (Einser) inoltre per causa loro bisognava cucinare un po' meglio, per non esporsi a chiacchiere spiacevoli.
Avevano vitto e alloggio e ricevevano, oltre al compenso pattuito, la cosiddetta «Miglioria» in forma di generi alimentari, come semi di papavero, pane, dolciumi.
Vitto e vestito erano poi anche la parte principale della retribuzione dei servi agricoli, cioè del compenso per i lavoratori estranei alla famiglia, che secondo l'usanza venivano assunti per periodo di tempo limitato, per lo più da Candelora a Candelora (2 febbraio). Questo ceto servile costituiva in vaste parti del Tirolo un importante pilastro dell'economia agricola.
Da una parte i contadini potevano procurarsi sufficiente mano d'opera a basso costo, e dall'altra, proprio questa quantità di forze lavorative creò la premessa per quella gerarchia contadina, per quel modo di vivere, che garantiva a ciascuno il suo posto e il suo compito nella grande famiglia, insieme con una equilibrata misura di lavoro e di tempo libero.

Le gerarchie del lavoro.
Nel maso la disione del lavoro più importante era quella per sesso. Il Bauer era affian-
cato dalla Bäuerin, i fratelli dalle sorelle. Non era possibile pensare di condurre un ma-
sosenza il contributo femminile.
In una casa ordinata regnava un fondamentale ordine anche nella suddivisione dei lavori: campi, bosco, fienile erano, per lo più, cose da uomini, anche se c'erano dei posti, dove la cura del bestiame toccava alle serve. Ed era proprio là che c'era poi la bella «casara» cantata spesso in molte canzoni.
Casa, orto, lino, pollame e spesso anche i maiali erano affidati alla massaia e alle serve.
Anche all’interno della servitù compiti, doveri e diritti avevano un ordine. La serva grande, chiamata per lo più «Kuchlin» (cuciniera) aveva il compito, tra il resto, di preparare la colazione e di dare una mano alla padrona in diverse cose.
La seconda serva era la «Felderin» (campagnola): in casa aveva molto da fare. Non così invece la «giovane» o la «ragazza», che doveva per esempio lavare le stoviglie. E i recipienti per il latte richiedevano una accuratissima pulizia.
Al fianco del contadino c'erano invece il famiglio, il cavallaro, il foraggiere ed il piccolo.
Una posizione speciale era quella degli addetti al governo del bestiame; perlopiù erano in due, e solo eccezionalmente eseguivano lavori nei campi. Passavano l'estate quasi sempre sulla malga. Fino alla prima guerra mondiale non c'era affatto scarsità di mano d'opera. Per esempio il maso Mayrhofer di Lüsen-Luson, che era però molto grande, teneva in servizio dodici uomini e cinque donne.
Il punto centrale di questo modo di vivere secondo l'ordine tradizionale era l'assillante preoccupazione per il pane quotidiano e per il lavoro che esso comportava.
In un maso di questo genere non si può fare a meno di accentuare al massimo e di mettere in evidenza il rapporto uomo-lavoro: «Chi vuole parlare della vita dei contadini in modo verace, deve parlare prima di tutto di lavoro: feste e celebrazioni varie restano di gran lunga in seconda linea. Esse sono qualche cosa di voluto, quindi di mutabile; quelle più antiche spariscono, altre prendono il loro posto. Ma il lavoro è necessità; è questo che dà forma e sostanza al modo di vivere». (Oswin Moro)

I coloni agricoli.
I contadini più poveri avevano avuto in sorte appezzamenti piccoli o terreni agri-
coli marginali che non erano in grado di sostentare una intera famglia. Per integra-
lo scarso reddito lavoravano come braccianti ed esercitavano stagionalmente una
piccola attività artigianale. Il Bauer del maso beim Tenningn in Val Aurina aveva
a piano terra un'officina da carradore.

Accanto al ceto dei padroni patriarcali dei masi, che potevano dirsi proprietari di quasi tutti i terreni coltivabili e che si sentivano più che mai legati alle tradizioni e custodi delle antiche usanze, c'era, per la verità, anche uno strato, non tanto ridotto, di gente più povera e in misere condizioni.
Erano i piccoli coloni che avevano, è vero, ancora un tetto proprio sopra la resta e un po' di terreno per un paio di mucche o alcune capre e qualche pollo. Ma questa piccola proprietà garantiva loro dei proventi troppo scarsi: un po' di latte, uova, ecc., e tuttavia li teneva legati in un certo modo alla terra natia e ai destini della comunità e del vicinato.
Per il resto erano obbligati a cercare altre fonti di guadagno, come artigiani, braccianti giornalieri, oppure come famigli.

I servi agricoli.
La società dei masi aveva un suo mondo subalterno composto dai servi agricoli,
braccianti a vita che erano gli esponenti più numerosi del variegato popolo dei
"paria di montagna", umanità minore non solo povera, ma anche senza diritti.
 
Si devono distinguere dai piccoli coloni, chiamati anche piccoli proprietari, i cosiddetti «Ingehäusen», nullatenenti che ricevevano alloggio (quartiere) nel maso. Non avevano nessun diritto di intervento negli affari pubblici, nessuna parte ai beni della comunità (uso civico), per tutto quello che facevano o combinavano, rispondeva il padrone di casa. Essi costituivano certamente la maggior parte dei lavoratori agricoli e dei «viandanti» (girovaghi), in giro dappertutto alla ricerca di lavoro che spesso, spinti più dal bisogno che da cattiva inclinazione, si lasciavano indurre ad azioni disoneste o criminose di ogni genere che provocavano poi qua e là delle reazioni nel paese o nel vicinato, talvolta sproporzionate.
Questa povera gente veniva chiamata «Pofel», che significava merce scarta, senza valore.

I cicli lavorativi stagionali.
Nell'annata lavorativa del contadino si alternano giorni tranquilli con giorni faticosi; lavori gradevoli e divertenti con lavori temuti e pericolosi.
Tra i normali lavori dell'inverno c’era il trasporto del letame nei campi, approfittando della crosta portante della neve, e il trasporto a strascico di fieno e legname. Anche le provviste di legna da ardere dovevano essere rinnovate.
Se si partiva presto, per andare a prendere, per esempio, fieno o legname, il pomeriggio rimaneva, dopo un buon pasto robusto, per lo più libero; oppure, se la mattina era molto freddo, si poteva starsene per una oretta a scaldarsi nella stube e altrettanto nel pomeriggio. Per le filatrici c’era a questo riguardo la cosiddetta ora di luce che era il crepuscolo e le serve dovevano andare a prendere acqua e legna e sbrigare altre faccende di casa.
Pesante e pressante era talvolta il lavoro di preparazione dei campi. Nei posti a media altitudine tutti i campi dovevano essere seminati entro il 24 aprile (San Giorgio), inoltre tutti gli steccati dovevano essere riparati e in ordine. A San Giorgio cominciava il pascolo del bestiame e quindi era il giorno, dei «dondoloni» (Kleiner Schlenggltag): i pastorelli entravano in servizio e vi rimanevano per lo più fino ad Ognissanti. Dal giorno di San Giorgio la colazione era alle cinque, ma c'erano dei solerti famigli che avevano cominciato a lavorare ancora prima. Per il resto, le settimane del maggio scorrevano piuttosto tranquille. Si andava nel bosco a rastrellare e raschiare insieme strame e fogliame.
In questo periodo c'erano anche le «rogazioni» alle quali partecipavano tutti quelli che erano liberi da lavori pressanti. I lavori più importanti erano la fienagione e la mietitura del grano. Da San Vito (15 giugno) fino alla fine di settembre c'era ben poco da riposare.
Dove ci sono grandi estensioni di prati montani o di malga, intere famiglie e gran parte dei servi se ne andavano a trascorrere un paio di settimane su nel fresco regno delle malghe, ciò che in parte avviene anche oggi.
Il fieno veniva stipato in fienili, in autunno veniva consumato sul posto dal bestiame, oppure in inverno trasportato a valle. La giornata lavorativa estiva era molto lunga.
Essa veniva interrotta da cinque pasti: colazione, mezza colazione, desinare, merenda e cena.
Era anche ovvio che, nonostante il pressante lavoro, ci si fermasse per una breve preghiera in comune, quando la campana suonava l'angelus a mezzogiorno, o quando, un tempo, suonava alle nove del mattino del venerdì, per ricordare il trapasso del Signore. E così più di uno stanco mietitore non vedeva l'ora di sentire, dopo dodici ore di lavoro, la campana del riposo serale.
Dopo la cena si recitava ancora il rosario in comune: inginocchiati accanto o sulle panche intorno alla stube si attendeva, talvolta con impazienza, la fine delle molte invocazioni ai Santi e alle anime dei trapassati.
La piena estate non contava molti giorni festivi, e anche le usanze di chiesa erano poche.
Se poco dopo San Pietro (29 giugno) c'era una prima messa - ciò che una volta avveniva molto più spesso di oggi -, essa veniva festeggiata da tutto il popolo con gioia e col massimo impegno, anzi si consumava addirittura un paio di scarpe, per potervi partecipare e ricevere le relative benedizioni.
Anche il 15 agosto, giorno dell'Assunzione di Nostra Signora, veniva e viene celebrato dappertutto come festa grande con la consacrazione di fiori e di erbe.
Dopo San Bartolomeo la forza dell'estate comincia a venir meno, ma non diminuisce l'assillante lavoro dei campi. Ciò avveniva e avviene, caso mai, soltanto in ottobre. L’autunno portava alcuni lavori durante i quali ci si divertiva, per esempio l'affettatura dei cavoli per la preparazione dei crauti, e la gramolatura della canapa.
Dopo San Martino (11 novembre) le serve cominciavano di nuovo a filare e gli uomini a trebbiare. La trebbiatura doveva essere finita per l'Epifania, al massimo per la Candelora.
Così in un arco di settimane di duro lavoro, alternate con lieti giorni di festa, si chiudeva l'anno in un ordinato susseguirsi di tradizioni ma anche in un continuo cambiare e in armonia con la natura.
Queste strutture portanti del lavoro e del modo di vivere sono state raccolte e accostate qui nel museo con la speranza che risultino anche ben combinate e connesse in modo che se ne possano ricavare alcune importanti linee fondamentali della cultura popolare.
Fa parte dei vantaggi di un museo poter raccogliere delle genuine testimonianze concrete e combinarle con un idea.
Che il visitatore si senta chiamato in causa, illuminato e arricchito, oppure respinto, questo dipende da tante cose non da ultimo dal suo atteggiamento di fronte alla storia e al passato in genere. E neppure si può a questo riguardo sottovalutare il rapporto del visitatore stesso con la gente dei campi e con tutto ciò che è in genere «contadino».
La vita non è nel museo, essa è di fuori. L’inevitabile mutare delle cose che avviene là, getta ombre e luci trasfiguranti sul mondo del passato.
Un giro contemplativo attraverso un museo come questo, riconduce i nostri pensieri alle radici dalle quali moltissimi di noi traggono origine, cioè dal ceto contadino.
E a questo punto può anche succedere che si risvegli in noi una felice consapevolezza di qualche cosa che è legato ai suoi valori e alle sue grandiose conquiste come ben dice il poeta Rudolf Alexander Schröder:
«Perciò amico io mi compiaccio del mio sangue contadino ereditato dagli avi che mi fa ricordare con venerazione il sacro duraturo suolo che dà nutrimento e mi rinforza la mente di fronte al vorticare del tempo.»

Tratto da: Hans Griessmair,
“Il Museo etnografico di Dietenheim”,
Casa Editrice Athesia,
Bolzano, 1988

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