Un isolato esemplare di abete rosso nei Lagorai (TN).
|
Il peccio, Picea excelsa Link, o abete rosso, è l'albero che è sempre stato presente e mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei nostri boschi: erano alberi feriti dalla guerra che per necessità di coltura, tra il 1919 e il 1922, si dovette abbattere.
Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; come sempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani piantavano appena la neve liberava il terreno. C'erano diversi vivai, orti forestali li chiamavamo, ubicati in località distinte per clima e altitudine al fine di poter procedere nel lavoro di semina e di rimboschimento in armonia con la stagione meteorologica. I semi venivano dalle foreste della Val di Fiemme che, dicono gli esperti, sono le più belle e danno il migliore legname delle Alpi.
Un abete rosso associato a piante di larice.
|
Ora, a distanza di settant'anni, ci si rende conto che fu errore impiantare boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneità hanno un equilibrio molto fragile perché parassiti di ogni genere, malattie fungine, insetti e inclemenze stagionali possono in breve tempo rendere vani lavoro e capitale. Ma allora si trattava di ricostruire in fretta la foresta distrutta e di coprire cosi i vistosi disastri della guerra.
La pigna dell'abete rosso in primavera. |
Il peccio resta pur sempre l'albero per eccellenza delle nostre foreste alpine, e da lui hanno tratto da vivere
tante famiglie di montanari che dal suo legno ricavavano oggetti che poi venivano commerciati in paesi anche lontani. Fino alla scoperta e all'uso della plastica, attorno alle case delle nostre contrade c'erano sempre castelli di assicelle o doghe messe a essiccare al sole, e poi da queste, quando il lupo mangiava l'inverno, si ricavavano mastelli, secchie, tini, fasce per il formaggio, scatole di varie misure per le farmacie e gli orefici.
tante famiglie di montanari che dal suo legno ricavavano oggetti che poi venivano commerciati in paesi anche lontani. Fino alla scoperta e all'uso della plastica, attorno alle case delle nostre contrade c'erano sempre castelli di assicelle o doghe messe a essiccare al sole, e poi da queste, quando il lupo mangiava l'inverno, si ricavavano mastelli, secchie, tini, fasce per il formaggio, scatole di varie misure per le farmacie e gli orefici.
Rari pecci con particolari caratteristiche (denudati dalla corteccia mostrano delle piccole verruche regolarmente distribuite lungo il tronco) venivano e vengono chiamati alberi di risonanza e abbattuti, stagionati e segati in maniera accurata e seguendo le fasi lunari (l'abbattimento deve essere fatto subito dopo il plenilunio e, dopo qualche anno, il tronco segato in luna calante perché così il legno, materiale vivissimo, risulta più stabile). Di queste assi così ottenute i liutai si servono per costruire le casse degli strumenti a corda.
La foresta pura di peccio è uniforme, cupa, qualche volta priva di sottobosco o con sottobosco povero. Gli alberi si alzano diritti come colonne e la luce filtra tra loro creando forti contrasti come in una cattedrale gotica. D'inverno, a volte, la neve rimane sospesa sui rami per più giorni e quando scivola al suolo crea delle trincee attorno ai tronchi. Le abbondanti nevicate primaverili accumulano grande quantità di neve pesante sulle cime uniformi del bosco e se a queste nevicate si accompagna forte vento, il fenomeno provoca grandi schianti di tronchi e sradicamenti, con rumori violenti e improvvisi, boati, scrosci e nuvole di neve. E chi passerà per una strada forestale o per una mulattiera in tali momenti, proverà profonda emozione e anche spavento.
Il peccio, della famiglia delle Pinacce, da molti, e non solo dai cittadini sprovveduti, erroneamente è chiamato pino. Ma altri alberi sono i pini. Questo peccio, o abete rosso, è albero di primaria grandezza, alto, talvolta, più di quaranta metri; è longevo tanto che in alcune foreste ancora intatte se ne possono trovare di quattro-cinque secoli d'età. I rami sono disposti a piramide con le estremità rivolte verso l'alto. Nelle quote più alte o nelle regioni del Nord assumono forma colonnare perché dalla neve e per lungo tempo i loro rami vengono schiacciati contro il tronco. La corteccia è rossastra e a piccole squame, invecchiando si fessura e si dispone a placche. Le foglie aghiformi lunghe due-tre centimetri sono disposte tutt'intorno ai ramuli; i fiori maschili, sui rami più giovani, sono amenti giallo-rossastri; i femminili di un bel colore rosso vivo. Gli strobili sono penduli, lunghi anche venti centimetri e cadono al suolo prima di aprirsi. (Ma gli scoiattoli comodamente seduti tra i rami amano desquamarli per mangiarne i semi e a terra lasciano cadere il torsolo nodo). I semi sono bruni e grandi come un grano di miglio, con un'ala lunga quindici millimetri.
Quest'albero ama la luce, i terreni sciolti e acidi; forma anche boschi misti con il faggio e l'abete bianco e, nelle quote più alte, con il larice. Riveste le montagne tra gli ottocento e i duemila metri ed è specie tipicamente boreale in quanto la sua distribuzione va dalle Alpi alle montagne più alte della Grecia, dalla Transilvania alla Scandinavia fin oltre il Circolo Polare.
Narrano i poeti greci e latini che il peccio era albero pronubo e sacro a Imeneo perché dal suo legno resinoso si ricavavano le tede per illuminare il talamo nuziale.
L'abete bianco, Abies alha Mih, è pure un grande e maestoso albero che può raggiungere i cinquanta metri d'altezza e superare i quattro di circonferenza, come il bellissimo Avez del prinzep (Abete del principe) in quel di Lavarone, alla cui ombra amava sostare Sigmund Freud e che certamente è stato ammirato anche da Robert Musil. Il portamento dell'abete è eretto, il fusto diritto e cilindrico; la chioma è slanciata ma con gli anni, o con i secoli, assume la forma « a nido di cicogna ». I1 suo colore è verde intenso con i riflessi d'argento dovuti alle pagine inferiori delle foglie aghiformi, appiattite e persistenti, disposte a pettine su un solo piano ai lati del ramulo che le porta. La corteccia è liscia e argentea, con bolle resinose; con il tempo si screpola a placche e s'inscurisce come in tutti gli alberi. I rami principali sono robusti e fitti, a palchi. Come il peccio è albero monoico; i fiori compaiono in primavera, i maschili, sulla parte medio bassa della chioma, sono di colore giallastro; i femminili, sui rami più alti, sono rossoviolacei. Gli strobili, lunghi anche dieci centimetri o più, sono prima verdi e poi bruni, portati verso l'alto.
Il suo areale comprende l'Europa centro-orientale, ma alcune razze di abete bianco si trovano persino in Marocco, in Calabria, in Sicilia, nella Grecia e sulle rive del Mar Nero. Sulle Alpi si spinge sino ai limiti della vegetazione forestale' e lo troviamo di solito consociato con l'abete rosso e il faggio; ama i climi umidi e piovosi. Il suo legno è bianco ma tendente al giallino 0 al rosato, con gli anelli di crescita ben distinti.
I tronchi più belli e alti venivano usati per le alberature delle navi a vela, ma anche nelle armature e nelle capriate di certo impegno perché robusti e forti. Invece le tavole per falegnameria sono meno pregiate di quelle che si ottengono dal peccio.
La corteccia di abete bianco, ricca di tannino, macinata e ridotta in polvere, fino agli inizi di questo secolo veniva usata dai miei conterranei per conciare i pellami.
Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole.
Da allora si diffuse la tradizione dell'albero di natale che oggi ambientalisti e verdi vorrebbero far morire. La loro ragione, molto emotiva e poco razionale, è che migliaia se non milioni di abeti vengono così sacrificati, che boschi vengono distrutti con grave danno ecologico. E si indignano. Ma le cose non stanno cosi. Intanto si può subito dire che dove per cosi tanto tempo questa tradizione è viva e viene praticata, i boschi non sono affatto scomparsi. Nei Paesi del Nord Europa le foreste di conifere coprono ancora grandi estensioni di quei territori, ed è da credere che le superfici boscate sono aumentate. Ben altre sono le minacce alla loro vita! Da noi invece, per i boschi delle nostre montagne, si deve dire che non saranno certo gli alberi di natale a stravolgere l'ambiente. E mi spiego.
Gli alberi che vediamo vendere agli angoli delle piazze cittadine hanno verso la punta un sigillo del Corpo Forestale che ne garantisce la provenienza. Per lo più vengono da coltivazioni apposite, poste su terreni abbandonati che qualche montanaro coltiva per avere ogni otto-dieci anni una entrata extra per il suo magro vivere. Vengono pure utilizzati per alberi natalizi i cimali degli abeti tagliati nel bosco per necessità colturali.
Si sa che la migliore foresta, la più utile all'uomo sotto ogni aspetto, non è la foresta vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e coltivata. Lo dicono da tempo l'esperienza e gli studiosi che tutta la vita hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il ritorno del Sole e la nascita di Cristo.
Qui, al confine con il mio brolo, c'è un pascolo ai margini del bosco. Nel corso degli anni ho potuto constatare come va cambiando nell'aspetto. Un tempo vi pascolavano nove vacche; poi è stato abbandonato. Ha incominciato a coprirsi di cardi, di cespugli di ginepro, rosa canina e crespino. Tra questi cespugli sono comparsi dei piccoli abeti e qualche frassino. Qualche anno fa il contadino ha voluto riprendere l'allevamento e al posto delle dieci vacche, sullo stesso pascolo, non può tenere più di sette vitelle: hanno trovato poca erba e cosi ha dovuto decespugliare e ripulire l'area.
Ma intanto sono anche cresciuti gli alberi che con la loro ombra e con il loro sviluppo hanno ancora ridotto il pascolo. Ora, proprio in questi giorni di dicembre, il proprietario ha avuto dal Corpo Forestale l'autorizzazione a tagliare qualche centinaio di alberelli al fine di far crescere l erba per alimentare le vitelle. Questi alberelli diventeranno alberi di natale per voi che vivete in città e questa Operazione non la trovo per niente antiecologica.
A conferma di questo, proprio l'altro giorno un agronomo Rettore d'Università, mi diceva come, a causa dell'abbandono della montagna, anno dopo anno aumenti notevolmente la superficie boscata delle nostre Alpi, Prealpi e Appennini
Non preoccupatevi, quindi, amici ecologisti e verdi, per gli alberi di natale che vedrete vendere nelle vostre città: hanno lo stesso valore morale dei fiori nelle fiorerie. E a coloro che verranno a trascorrere le vacanze natalizie e di fine anno in montagna, vorrei solo dire di non essere loro ad andare nel bosco a tagliarsi l'albero di natale, che si potrebbero fare danno, oltre al furto. E poi sotto quell'abete che rallegrerà le nostre case non mettiamo solo doni costosi, inutili o diseducativi per i nostri ragazzi, ma assieme a qualche libro anche qualcosa per la ricerca sul cancro, o per i vecchi del ricovero.
“Arboreto Salvatico”
Einaudi, Torino, 1996
Nessun commento:
Posta un commento